18 novembre 2015

Tra le fauci del grande caldo

- nota del disegnatore: il seguente post risale a circa tre mesi fa. Il caldo narrato è quindi quello dello scorso settembre, quando un'ultima ondata d'afa avvolse tutti noi, prolungando un'estate già memorabilmente torrida.





La vecchiaia era una balena bianca che avevo davanti ogni giorno, oltre la finestra di casa.

Erano i soli cementizi di luglio a illuminare i due vecchi cacciatori di balene, miei dirimpettai inarresi al tempo. Uno suonava il violino, l’altro scriveva. Tutto il giorno. Lo fanno anche oggi, ma oggi è settembre.

Entrambi per ore e ore, uno seduto di schiena dietro la finestra di sinistra, l’altro di profilo dietro quella di destra, vicini a loro volta.

Anche ora stride il violino. Lunghe note aggrovigliate lungo i muri sono i miei ricordi faticosi, le inutili esercitazioni alla scuola di musica del circondario.

Il violinista non suona affatto bene. Lo prego mentalmente di smettere, lo scongiuro con tutto me stesso, ma non smetterà. La schiena ostinata produce acuti lamenti, accordature infinite tra lui e tutto il casato; muove appena le spalle e oltre quelle l’archetto obliquo con stizzita determinazione.

Il grande caldo dilatava i pomeriggi. Il mio vecchio era una cicala fatta uomo, un fanatico del pentagramma, un accalorato prodigo principiante. No, non smetterà che in autunno inoltrato, quando a finestre serrate non potrà più spandere le sue note e allora forse dormirà.

L’altro vecchio fa meno rumore, ma tocca vedere la sua finestra accesa nella notte, lui piegato sulla tastiera, la bocca semiaperta. Sembra più avanti con gli anni, dall’inclinazione del collo, della schiena; è più discreto, ma altrettanto tenace. Resta seduto lì per indefinite ore, talvolta immobile, altre volte muovendo le dita su pochi tasti. Resiste. Scruta se stesso, le sue parole. Attende un’ispirazione, la domanda fatale.

Il capitano Acab aveva meno dubbi e più elettrica frenesia; si vedeva vecchio e giunto al termine delle sue notti. Non credeva in nulla più, invocava la fine, la gloria.

Associo la vecchiaia all’insonnia, all’amore per le abitudini: ad esse sono vicino. Tengo d’occhio i giorni da quando siamo giunti a New Bedford ma conto gli anni ormai.

E sulla testa passa proprio ora una bianca mongolfiera.


27 luglio 2015

New Bedford

"Però, che posto buffo questa New Bedford. Se non era per noi balenieri, oggi questo pezzo di terra sarebbe in condizioni da piangere, proprio come la costa del Labrador."


17 luglio 2015

“I would prefer not to”


Sono quasi due secoli che Moby Dick attende l’oblio. Mai nata, mai morta, sempre narrata, dipinta, cantata.
Si sottrae alla realtà, la rifiuta.

L’immortalità del mito è una prova inverificabile in vita.

Quante balene dentro questi secoli ancora. Una anche tra i poeti italiani d’avanguardia, come quello i cui versi mi sono capitati davanti per caso, in un pomeriggio altrettanto casuale e causa d’infertili emicranie.
Sono i versi di Antonio Porta, anno 1966:

La caccia alla balena ha inizio
sul mare innestato di vele
che l’incavo di vento carica di mare.
Stiamo vigili al comando, i ghiacci
inviano bagliori circondando la rotta.
Scoppia la bufera e la nave capriola
la vista indebolisce, la gola si torce, rigagnoli scendono sulle gambe
la schiena del cetaceo splende all’improvviso, incalziamo con gli arpioni
e primi si bucano i seni, seconde le cosce lucide e rovescia il ventre, le braccia allunga all’indietro:
“Issiamola a bordo, divoriamo!”

Cosa dovevo credere se non che il poeta (Porta ma anche Melville) avesse anche lui vissuto in sé attimi di balena antropomorfa; una balena con le cosce, con i seni e le braccia.
Divoriamo(la)!



Da ragazzo ero costretto alla parafrasi delle opere scolastiche e ne ho ricordi livorosi. Credevo fosse un esercizio sterile e pretenzioso.
Nel ribaltamento di umori e di cieli stretti addosso, oggi sento quell’esercizio necessario al mio scopo: convincermi che la balena è ubiqua poesia, è umana e divina assieme; ha seni e cosce esposte all’attacco di arpioni (che incalzano), è splendente, e morendo si fa di volta in volta immortale. Morendo ci porta con sé. Ci lega ad un remoto profondo affetto. E siamo immersi in lei come la poesia immerge l’uomo.

Tu ricorderai quante volte è rinata l’ossessione della balena essere femminile cumulo di sirene e incurvature gigantesche eppure di leggerissima danza. Ne disegnasti il volto, le linee sinuose, la cupa sensualità.
Oggi rinasce, sacrificata ai versi sopra, la balena Afrodite.

13 luglio 2015

non sei Giona, nemmeno un dio


Ogni partenza ha il proprio rituale. Ogni scaramanzia una stolida cerimonia. Cosa temi veramente, Ismaele? La ritorsione divina per ciò che hai solo osato pensare: liberarti di tutto, sfidare l’abisso, gli dei.
Il viaggio parta dunque benedetto da un padre baleniere di nome Mapple. Anche lui risponde al tuo poema sacro: è un prete che arriva dalle profondità del mare, che del mare porta gli impeti e la grazia. Dalle sue profondità ha udito l’ultima preghiera di Giona prima che fosse vomitato in salvo dalla balena.
Il pulpito della chiesa è la prua che fende il dubbio dei credenti davanti alla sparizione dei loro cari. Restano le lapidi ai muri, vuote di ogni consolazione, di ogni morta materia.
Tu e Quiqueg di nuovo  assieme qui, tra vedove e marinai, affidati per l’occasione allo stesso Dio.
Tutti attendono il sermone che risvegliando Giona faccia tremare i cuori e rinsaldi le anime. Anche tu Ismaele, contrito, ti ricrederai.

Quanti sermoni schiuderà il tuo libro?




“Dio aveva creato un grande pesce per inghiottire Giona”, grida il prete alla platea e ai fantasmi del mare.  Prometti obbedienza ai comandamenti e alle verità della Bibbia. Contrasti il terrore bianco della fine con indigesta devozione. Ora attento. Dio, dall’alto ti guarda e ti sente, attento, non dubitare adesso! Distrai il pensiero, volgilo all’angelo abbagliante sopra quel pulpito. Crediti fedele. Crediti.

“Di sfondarmi l’anima, né una balena e nemmeno Giove saranno capaci” dici a te stesso, sognando l’immortalità, umiliando il corpo, che possa andarsene in pasto agli squali e alle orche.

Giona dentro la balena ha ritrovato Dio, così salvandosi. Nelle viscere di Moby Dick, tu figlio di Abramo, non troverai che parole, e mistero.



11 luglio 2015

il pastore


Dio nella balena

Devo mettere Dio sul dorso della mia balena? Il mio nome, la mia civiltà, ubbidirò, se questo può salvarmi.

Così pensi e trovi in Giona l’aneddoto biblico che scriverai. Il tuo grande romanzo è sacralizzato.

New Bedford. Una città cosparsa di grasso di balena, fiorita di ippocastani, non può nascondere una chiesa. Oscuramente attratto da un commiato che chiami in causa il divino e la morte, lanci in questo capitolo la tua sfida al viaggio. Spingi su una nuova porta e poi pentiti.



25 maggio 2015

fermo indagine (due)


Ismaele uomo inquieto senza lavoro, vittima di depressione bipolare. Acab monolite di forza ossessivo compulsiva con episodi di lirismo e delirio d’onnipotenza; la possibile misoginia dell’autore che tratteggia appena il femminile in scene corali dove la donna è tetra o vecchia o solo devota quando non tradita. E poi questa maledetta balena o capodoglio che sia, che sesso ha nella mente di Melville che passa dal pronome maschile a quello neutro riferendosi a un leviatano, poi a una balena, infine a un essere personificato quasi-umano? Questo corridoio di mare e dubbio avrei cercato d’imboccare. La follia baleniera e ballerina di Melville e di noialtri.
Se Ismaele era partito per un viaggio colmo di morte e di bellezza per uno stato di possibile nevrastenia, se Acab incarnava a tutto corpo e a tutta voce la follia suicida di un capitano remoto e amputato, e se Melville per cronaca del tempo era considerato un pazzo delirante anche dalla moglie,  perché noi avremmo dovuto credere a una balena disposta a farsi prendere senza farci uscire di testa?
Eravamo e restiamo le stesse vittime di Moby Dick follia lucida, chiaroveggente ecatombe di troppo umane imprese, miraggio di conoscenza e di salvezza eterne.
La natura non faccia il suo corso e ci illuda ancora  in questo viaggio.


4 maggio 2015

fermo indagine


Quello che avevo pensato su Melville e il suo romanzo era una variante acquosa di cose lette o che avrei potuto leggere meglio elaborate in un oceano di pagine critiche.
Nulla di nuovo nelle mie intuizioni: il mito del superuomo, i precetti biblici sulle umane sorti, le paure abissali azzurre tenebre, il riscatto della letteratura sull’austerità vittoriana; l’alba della fiction nordamericana, la peculiarità di Melville nel suo tempo, l’imperitura attualità del romanzo, il simbolismo e così via.
Stanco di cercare, mi nascondevo dalla vista della Bibbia per paura di doverne leggere altre pagine oltre l’Apocalisse. Mai aperta in quarant’anni, farlo ora mi spingeva al pianto. Non trovavo pace. Tutto il simbolismo rintracciato nei mesi, tutta la mia sdrucita esegesi del testo, si organizzavano in un debole rivolo istintuale, scriteriato, eppure sola possibilità di stupore. Il disegno e le parole, arnesi primitivi, dovevano riforgiare un leviatano contemporaneo, digitale, sociale, interconnesso, ma altrettanto impossibile, immortale.
La follia sociale allora, i suoi ramponi scagliati a tutta forza sulla balena dei giorni, le diverse pazzie di Acab, di Ismaele, di Melville, dei suoi amici e di noialtri aspiranti epigoni del vate Herman, tutte venivano chiamate all’opera di questa tentata replica.

14 aprile 2015

per un dialogo(muto)



tu volevi, sapevi


Quest’uomo è una tua creatura, un principe oscuro, l’amico diverso che crederà in voi due sulla stessa baleniera.
Si avvicina: “Non aver paura di Quiqueg. Tu non sei straniero per me. Io già so chi sei tu. Yojo – indica il suo idoletto - come angelo, lui dire tutto a me. E Yojo dice noi saremo amici. Amici fino alla fine.”
Estrae una statuetta dalla sacca: “Ecco Yojo, con lui, noi sempre prima del futuro.”


Credi al suo credo, fanne il tuo destino Ismaele. Quel che volevi ora sta per divenire vero.


La stanza si accende di una luce provvida e felice. Sedete sul letto uno di fronte all'altro, sorridenti, estasiati.
Lui ti dice: “Stesso sangue, stessa testa, tutto uguale. Noi fratelli.”
Dormite assieme una notte meno fredda.
Domani la tua solitudine avrà nuova compagnia.


28 marzo 2015

verso il Pequod, in Due


Torni alla storia, alle immagini.
Risenti prima i passi avvicinarsi alla porta, una bava di luce corre sotto la soglia. Fremi nel letto in preda a una curiosa paura.
La porta si apre, si staglia sul muro una sagoma, un'ombra che tremola al lume di candela.


E' solo un’ombra, non può esser tanto mostruoso.


Lui si avvicina al letto. Senti nel silenzio il suo respiro accompagnare movimenti lenti.
Dove metterà quella testa imbalsamata?
Si sarà accorto di me?
Nella mezza luce, trovi il coraggio di sollevare la coperta e guardare l’uomo. Vince la paura, la tua curiosità.
Vedi un volto rossiccio tatuato da neri riquadri, un cappello alto sul capo. Ha un’espressione di stonata cordialità. Vacilla la tua diffidenza come la fiamma sul camino.


11 marzo 2015

tre fogli di abbozzoli


E aspettavo te, le tue prime mosse a matita, così come tu aspettavi me, il soggetto o la parte di sceneggiatura che dicevo di aver pronta da settimane. Accampavo alibi per continuare ad attendere. Pareva che tutto fosse attesa, compresa l’epopea di Moby Dick, la vita, le sue antitesi.

Novembre 2010. Era il secondo autunno di un medesimo anno, l’anno dello stesso inizio di ogni volta che si pensa a un inizio. In un anno di lavoro (e lavorio e logorio) non era uscita una sola pagina del romanzo grafico. Non una sola pagina che unisse segno e parole. Avevo a fatica redatto la mia Confusione, così avevo chiamato il testo; tu avevi tratteggiato figure su tre fogli definendole Abbozzoli: quasi tutti mezzi busti dei protagonisti, solo un Acab elettrizzato e fumogeno, arpionato al suo tavolo, chino sulla cartina degli oceani; solo a lui avevi dato slancio, su una gamba sola. Tre dinamiche per uno storpio.

Fissai  il tuo Acab di spalle e fu nuova incarognita fede.






10 marzo 2015

al fondo di niente

Non dormivo da diverse notti, ma non aspettavo Quiqueg o qualche oscura apparizione. Acab si era intravisto ed era scomparso.
Giacevo nel letto per ore. Aspettavo di toccare con il cranio rovente il fondo del fondo e lì dormire. Sentivo la testa dondolare verso il basso, ma sotto di me c’era un oceano profondo quanto una vita e alla fine di ogni notte mi ritrovavo desto, comandato dalle più cruenti luci d’autunno.

A terra, a fianco del letto, giaceva il romanzo di Melville con le pagine aperte contro il pavimento. Il  veliero in mezzo alla tempesta stampato sul dorso mi rinviava a una vanità nauseante e proterva. Era trascorso un anno dalla sua prima lettura, era la fine di ottobre 2010. Restavano scarabocchi sulle pagine e sghembe sottolineature. Avevo imbastito un soggetto vasto e visionario, per il resto, tutto era contenuto nella testa che scendeva caparbia senza affondare.

Restavo immobile nel letto, rattrappito, aspettando un buon motivo per alzarmi. Nessun desiderio e nessun dovere mi chiamavano, la stanza in penombra mi proteggeva dall’inganno di una libertà annientatrice. Il viaggio di Ismaele non riusciva più a muovermi come del resto niente in quei giorni; preferivo lasciare andare la testa all’infinito, guardare lo sfavillio fluorescente delle sinapsi allontanarsi da me, nelle oscurità marine.

28 febbraio 2015

ipotetica pagina

Tavola montata. 
Come per il resto del materiale pubblicato sul blog, anche in questo caso si tratta di uno studio, una prova, un esercizio. Uno stato larvale, bozzolo indispensabile alla trasformazione, al raggiungimento di una forma diversa, definitiva. 
La Balena che un giorno vedrà la luce, risalendo dalle profondità oceaniche delle nostre immaginazioni per venire a sfiatare oltre la superficie cartacea di una pagina, sarà solo lontana parente di tutto questo.
Credo. 






21 febbraio 2015

Quiqueg, ovvero l’amico


Con chi dovrò spartire il sonno?
Ti tormentano le sordide parole di Coffin : “Il tuo ramponiere è un venditore di teste imbalsamate. Ormai è passata la mezzanotte, rientrerà solo all’alba, non darti pensiero, dormi.”
Scale, una stanza che ti accoglie fredda come un obitorio, un ampio letto. E’ sempre dentro un letto che ritroviamo i nostri sogni inconfessati.

Ti stendi con la testa piena di deduzioni inutili. La mente non può dormire. Giace e fantastica sola.
Alla luce di una candela un rampone punta contro la testiera del letto. Altre cose esotiche, non da marinaio, non da cristiano. Chi è l’uomo con cui dovrò dormire?
Sarà notte di rivelazioni senza sogni.

Intanto vinci le paure scrutando ragioni nel buio. Tutto questo mi è capitato già, non può succedere ancora, ti conforti pregando giunga presto il sonno.
Soffi sulla candela e aspetti lo straniero con la sua testa imbalsamata. E’ un selvaggio, un cannibale?
Dormirò con lui. Non mi sveglierò di certo peggiore.
Ti abbandoni a un sonno che è  simile ad un agguato.


20 febbraio 2015

maledetto capitolo III


Non fu facile affrontare le immagini che fanno riferimento al capitolo III - La Locanda del Baleniere. 
La scena, per quanto schematica e dettagliatamente descritta nelle pagine del romanzo, per oscuri motivi restava vagamente fumosa nella mia testa (esiste qualcosa di nitido nella mia testa? Sì, una sola cosa). 
Doveva trasmettere cupezza o una leggera comicità? Predisporre il lettore all'inquietudine? E la figura del marinaio narrante che avevo trovato nel film di Huston, l'avrei utilizzata o ignorata? Troppo caricaturale? Troppo scontata? Mi stavo inaspettatamente arenando. 
Provai alcune possibili impaginazioni, spostando l'ordine delle vignette, smontando e ricostruendo, come faccio spesso, quando la sceneggiatura è abbastanza aperta da permetterlo, ma senza decidermi. 
Al momento questo passaggio è ancora in sospeso: quel che è certo è che NON sarà così come lo abbozzai in questi disegni. 


18 febbraio 2015

amicizia in agguato

Un corridoio stretto, le gambe tremule che avanzano,  il pensiero affamato e stanco vince le ultime resistenze. La fame divora l’ansia che hai masticato fin qui.
In fondo a una specie di cunicolo consumi il pasto bevendo con uomini che ti saranno compagni; manca quello che dovrai aspettare dentro al letto. Giungerà nella notte, secondo le parole dell’oste.
Gli hai chiesto una stanza e lui, ghignando: “Se non ti dispiace dividere il letto con un ramponiere… Se sei qui per la caccia alla balena, è meglio che ti abitui a questo genere di cose”.
Rideva il vecchio. Hai iniziato a sospettare, la schiena si è incurvata verso il tavolo dove hai creduto di poter dormire.
L’alcol ha disciolto parte delle resistenze. E’ solo paura, nessun cattivo presagio. E’ solo un nuovo episodio. Bevi Ismaele.


7 febbraio 2015

primo mese di navigazione

Pungeva nel fianco la mancata riuscita.
Questo, di tanto in tanto, rafforzava i motivi di un personale disprezzo.
Il nostro Ismaele non era né morto, né scampato all’abisso appeso ad una bara di legno. Non era scomparso del tutto in noi, né aveva potuto raccontarci il viaggio che lo aveva chiuso in casa a scrivere un’autobiografia spirituale, facendolo quasi ammattire. Lo stavamo uccidendo noi, lentamente.
Lo avevamo animato e poi lasciato invecchiare dentro le memorie, o in alcune vignette dove a ben guardarlo, appariva sempre più vecchio e stanco, forse davvero stanco di noi.





Appunti e bozze galleggiavano al largo dei nostri anni, che sfilavano veloci, come a liberarci dell’assillo.
Noi eravamo contrari concordi a smettere, senza dirlo, simili nel decretare due diversità contemplative incapaci di credere.
Adesso qui, mi chiedo come sia accaduto di nuovo.
Eppure, in un giorno così è stato. Nero (per spirito di contraddizione e visione delle cose) + Balena (perché she, he, it, il Leviatano, il Capodoglio, la Balena o Moby Dick, tutte queste persone erano diventate nostra comune ossessione, nostra riserva di vita).
Così siamo salpati. Di nuovo. Il viaggio porta l’onda lunga delle Odissee (tu ne sai qualcosa), vanta un mese di mare soltanto, ma porta in sé le durate e i durante fin qui respinti nei pudori della concretezza e della ragione.


4 febbraio 2015

nello specchio della locanda

Posi lo sguardo e ritrovi ovunque brandelli del sogno, della grande caccia. Devi vedere e vivere di nuovo ciò che hai già scritto negli anni del viaggio. Vivi il tuo personaggio e la storia di tanti, capace di nuova sorpresa. La leggenda, ripetendosi, rivela i dettagli meno visibili. Lì, si nasconde un vero introvabile.

Un quadro fosco ti ha colpito alcune pagine indietro: una balena (nientemeno!) vola e piomba contro un veliero sbattuto dalla tempesta, quasi sommerso. Sei perplesso, non credevi che quell’essere per quanto diabolico potesse arrivare a tanto.

La fantasia di un artista resta al di sotto di quanto raccontano i marinai. Ascolta i loro racconti di mare e poi scrivi.







insegui il tuo mito e non sei tu

Spingi avanti la porta e si apre un antro meno buio ma ancora simile alla medesima storia.
Come un principio generatore, tutto ispira la balena. Intorno hai un arsenale dell’antica caccia, un tetro museo di lance e ramponi appesi ai muri del vestibolo. Non dire che non lo immaginavi.

Ti trovi dall’altra parte del sogno, hai lanciato in avanti, nel tempo sempre uguale della Storia, di nuovo la leggenda Moby Dick. Il mito e il suo avversario, l’infinito.
Quando finirà, sparirà anche il mare, finiranno i tempi.

Sono trascorsi solo dieci anni da quando hai lasciato la baleniera Acushnet al suo esotico destino. Sei fuggito assieme ad un compagno per cadere in mano agli indigeni. Sei scampato alla morte, e ora tu sei quello che eri e che resterai negli anni: un marinaio (un baleniere), un fuggitivo, uno scrittore sopravvissuto a sé stesso.


30 gennaio 2015

i cani di Acab

C’era qualcosa di sciocco nell’accanirmi contro me stesso per arrivare a fare quello che meno mi riusciva e (dunque) più desideravo. Scrivere. Mi era doloroso ricomporre le idee, trasformarle in parole, in sequenze ordinate; tutte tornavano ad aggrovigliarsi sulle poche immagini che si erano fissate nella mente, facendosi giovani ossessioni. Bene, pensavo, si uniranno a quelle più vecchie.
Vedevo i cani randagi che leccavano il sangue di Acab ferito a morte, secondo la profezia di Elia nella Bibbia.

Nel frattempo trascorrevano mesi come fossero giorni, stagioni intere, a impoverirmi senza lasciarmi fare quasi più nulla.
Il viaggio del protagonista che mi imponevo come alter ego, era senza dubbio più entusiasmante del mio. Mi stancavo di lui per troppa indulgenza, riconoscendo la verità: io cercavo Acab e con lui l’ossessione della balena.
I cani che Elia aveva liberato nella mia testa ringhiavano il suo nome: Acab. Acab!

Per arrivare a lui mi costringevo a scrivere di nuovo, per far procedere la storia.




20 gennaio 2015

sui disegni


Per rispondere in un colpo solo a un paio di domande pervenutemi: fin qua ho "pescato" dal quaderno degli schizzi alcuni disegni, bozzetti, appunti visivi appartenenti al primo periodo, quello dell'approccio vero e proprio al romanzo. Parliamo dell'anno 2009 circa. Idee per una vignetta, per una sequenza, in alcuni casi per un'intera pagina: tutto materiale successivamente scartato, almeno in questa forma, ma che è stato fondamentale per la costruzione delle tavole definitive, attualmente in lavorazione. Credo che quasi sempre la genesi di un'immagine sia più interessante del risultato finale. Anche quando si tratta d'uno scarabocchio.


nel segno di Coffin


New Bedford, dicembre di un anno fuori dal tempo. La città dell’imbarco ti accoglie nera, appuntita nel vento. Una chiesa mormora nel buio sporco tra le case.

Battuto dal freddo, ti chiedi da quanti secoli vai per mari e per deserti, quanti spettri ballano accanto a te in questa notte. Non sei mai così solo davvero quando tremi.

Le strade sono storie lastricate di ossa di balena, uno di questi  vicoli oscuri è l’inizio che senza sapere hai scelto. Consideri la notte, il gelo che brilla e taglia le vene. Consideri le poche monete nella tua sacca, la fame e il sonno brucianti. Questa città guado per l’oceano, non sarà imbarco veloce. 
Dovrai fermarti, dovrà accaderti qualcosa. Qui.


sangue (uno)


(tratto dagli appunti miei del 2010)

(voce off) 

- Come tentacoli, rosse correnti si spingono in profondità, nell’abisso del tempo 
- Coagula il sangue in una grossa bolla dentro cui non si riesce a distinguere nulla
- Una bolla che cresce, si fa largo nello spazio invisibile dietro i miei occhi. Dall’enorme bulbo    subacqueo uscirà forse una città, una storia. 
- Da un'indefinita bolla di morte prende vita un romanzo
- Dall’altra parte della notte ti aspetta una città di mare 





















17 gennaio 2015

non scrivere, scrivi


Novembre 2009.
In breve tempo era chiara una sola cosa. Per scrivere della balena bianca occorreva la forza caparbia e cieca che io non possedevo. Sostituivo l’affanno alla scrittura, il delirio alla narrazione. Occhieggiava una nuova stagione di nevrosi elettriche. Non c’era più una sola balena bianca in testa ma ce n’erano tante quanti eravamo noi a cercarla. Infinite balene ovunque. Infinite, loro ridevano.

Io e te eravamo opposti complementi di un viaggio per uno solo. Non scrivere, scrivi. Attendi.

Incline al marinaio scrittore, al suo viaggio poetico abissale, capivo di pagina in pagina, di rilettura in rilettura, che la fine del lavoro e la salvezza delle sue intenzioni, avrebbero coinciso con l’infinitezza del tutto. Era già una delusione invitante, l’entusiasmo di averne ragione poi.

Ritornavo sui miei passi stanco e rabbioso. Ti scrivevo poi una lettera, per dissipare i dubbi. Per scrivere di non aver scritto nulla. 






12 gennaio 2015

una balena in più


Non avevo più nulla che mi legasse alla vita e pochi soldi per dimenticarla. Mi fermavo sorpreso a guardare i volti dei più giovani sui manifesti funebri, a scorrere l’anniversario della morte dell’amico d’infanzia. Mentre sparivo, ricordavo, rivivevo.
Guidando decidevo per il mare, come sempre. A volte per qualche istante la vista scompariva, le braccia se ne andavano lontano, staccate da me, protese a un tuffo violento.
Come se non avessi guidato io, arrivavo al mare, sempre lì, dietro alle dune indorate, unica certezza del giorno.
Il rovello di pensieri si smorzava nel volo nero dei gabbiani in controluce. Quegli uccelli ricadevano bianchi sulle creste dell’acqua, urlanti di vita.
Nel suo mantra obliquo, il mare mi calmava e diceva.
Cercavo allora l’inizio della storia:

Appare una distesa di mare morbido.  Infonde calma, presagisce.

Un punto sopra il mare è un uomo sospeso su di un sogno oceanico.

Nella mente, lui si parla.

Ismaele: “Quanto mare potrà contenermi?” 



ombre


11 gennaio 2015

noi, Ismaele

L’Inizio è sempre una seconda volta, un sogno ricorrente
C’era un brusio fumoso nella testa. Diverse notti sogni fluttuanti su un mare calmo, infido.
Frequenze sottili ininterrotte attraverso i timpani, giù fino alla gola, fino a tacerti indurito nelle mascelle. I pochi spiccioli messi in fila sul piano dello scrittoio. Le finestre serrate senza scampo.
Quel giorno una volta sveglio potevi impazzire. Potevi uccidere. Giorni d’autunno e di fuliggine, sprigionano mostri assopiti in quei giorni senza più sangue né ragione.
O ti muovi o puoi credere di essere scomparso per sempre dentro la tua memoria.
Ti sollevi, ti affacci alla finestra e guardi la vita con sgomento. Cos’è tutto quell’agitarsi là fuori?
Decidi di andare per mare, di incamminarti prima verso un rivolo d’acqua, così, ritrovare i tuoi passi nei luoghi che hai già camminato troppe volte. Cammini poi senza seguire che i passi, disperdi coscienza, ti addentri nell’ultimo sogno a forma di balena, affidi a quello un moto di entusiasmo, e sorride lo sguardo, Ismaele.



7 gennaio 2015

una questione privata, in mare aperto.

Quando abbiamo iniziato a immaginare questo viaggio incontro alla balena, in qualche modo sapevamo che non sarebbe terminato se non in un grande vortice. Così (fino a qui) è andata.
La storia della balena bianca si è fatta storia di un personale doppio smarrimento; si è presa tutto, divorata tutto, portandoselo in profondità sempre meno chiare, fino al fondo di un gorgo da cui tentiamo qui di risalire (ora la balena è in alto, vola sopra le nostre teste).
Ci siamo inabissati con lei e i suoi fantasmi. Sono trascorsi anni, stagioni, e le nostre vite nel frattempo sono cambiate più volte, restando sempre dentro, sotto o sopra la balena. Il romanzo che volevamo ridurre a una storia illustrata, ha prodotto le immagini e le parole di un vagabondare continuo della fantasia e del desiderio, senza una fine, una chiusura.
La sindrome di Melville (così l’abbiamo chiamata) ci ha colto e tradito: uno smarrimento svagato, a tratti compiaciuto, dentro l’epopea di Moby Dick... Ci siamo convinti che lo stesso Melville si sia abbandonato a questa condizione dell’anima negli anni della stesura del romanzo; si possono infatti ritrovare stati di follia e di allucinazione nella biografia dello scrittore, negli anni che seguono la genesi e la difficile diffusione del suo libro più famoso.




Ottobre 2009-Gennaio 2015. Volevamo uscire da un autunno pigro e indolente, veleggiare verso un Moby Dick da raccontare in immagini e parole, e oggi siamo ancora qui, confabuliamo sommessamente sempre all’ombra della balena, che ci sovrasta. Dannata balena!
E' stato un lungo viaggio fino a questo spazio, a sua volta dilatabile all’infinito, capace di superare la portata delle nostre intenzioni originarie di terminare un lavoro, dar vita a un libro… Quelle intenzioni che forse abbiamo temuto sempre troppo ambiziose, troppo solamente ambiziose, e possibili.