28 marzo 2015

verso il Pequod, in Due


Torni alla storia, alle immagini.
Risenti prima i passi avvicinarsi alla porta, una bava di luce corre sotto la soglia. Fremi nel letto in preda a una curiosa paura.
La porta si apre, si staglia sul muro una sagoma, un'ombra che tremola al lume di candela.


E' solo un’ombra, non può esser tanto mostruoso.


Lui si avvicina al letto. Senti nel silenzio il suo respiro accompagnare movimenti lenti.
Dove metterà quella testa imbalsamata?
Si sarà accorto di me?
Nella mezza luce, trovi il coraggio di sollevare la coperta e guardare l’uomo. Vince la paura, la tua curiosità.
Vedi un volto rossiccio tatuato da neri riquadri, un cappello alto sul capo. Ha un’espressione di stonata cordialità. Vacilla la tua diffidenza come la fiamma sul camino.


11 marzo 2015

tre fogli di abbozzoli


E aspettavo te, le tue prime mosse a matita, così come tu aspettavi me, il soggetto o la parte di sceneggiatura che dicevo di aver pronta da settimane. Accampavo alibi per continuare ad attendere. Pareva che tutto fosse attesa, compresa l’epopea di Moby Dick, la vita, le sue antitesi.

Novembre 2010. Era il secondo autunno di un medesimo anno, l’anno dello stesso inizio di ogni volta che si pensa a un inizio. In un anno di lavoro (e lavorio e logorio) non era uscita una sola pagina del romanzo grafico. Non una sola pagina che unisse segno e parole. Avevo a fatica redatto la mia Confusione, così avevo chiamato il testo; tu avevi tratteggiato figure su tre fogli definendole Abbozzoli: quasi tutti mezzi busti dei protagonisti, solo un Acab elettrizzato e fumogeno, arpionato al suo tavolo, chino sulla cartina degli oceani; solo a lui avevi dato slancio, su una gamba sola. Tre dinamiche per uno storpio.

Fissai  il tuo Acab di spalle e fu nuova incarognita fede.






10 marzo 2015

al fondo di niente

Non dormivo da diverse notti, ma non aspettavo Quiqueg o qualche oscura apparizione. Acab si era intravisto ed era scomparso.
Giacevo nel letto per ore. Aspettavo di toccare con il cranio rovente il fondo del fondo e lì dormire. Sentivo la testa dondolare verso il basso, ma sotto di me c’era un oceano profondo quanto una vita e alla fine di ogni notte mi ritrovavo desto, comandato dalle più cruenti luci d’autunno.

A terra, a fianco del letto, giaceva il romanzo di Melville con le pagine aperte contro il pavimento. Il  veliero in mezzo alla tempesta stampato sul dorso mi rinviava a una vanità nauseante e proterva. Era trascorso un anno dalla sua prima lettura, era la fine di ottobre 2010. Restavano scarabocchi sulle pagine e sghembe sottolineature. Avevo imbastito un soggetto vasto e visionario, per il resto, tutto era contenuto nella testa che scendeva caparbia senza affondare.

Restavo immobile nel letto, rattrappito, aspettando un buon motivo per alzarmi. Nessun desiderio e nessun dovere mi chiamavano, la stanza in penombra mi proteggeva dall’inganno di una libertà annientatrice. Il viaggio di Ismaele non riusciva più a muovermi come del resto niente in quei giorni; preferivo lasciare andare la testa all’infinito, guardare lo sfavillio fluorescente delle sinapsi allontanarsi da me, nelle oscurità marine.