25 maggio 2015

fermo indagine (due)


Ismaele uomo inquieto senza lavoro, vittima di depressione bipolare. Acab monolite di forza ossessivo compulsiva con episodi di lirismo e delirio d’onnipotenza; la possibile misoginia dell’autore che tratteggia appena il femminile in scene corali dove la donna è tetra o vecchia o solo devota quando non tradita. E poi questa maledetta balena o capodoglio che sia, che sesso ha nella mente di Melville che passa dal pronome maschile a quello neutro riferendosi a un leviatano, poi a una balena, infine a un essere personificato quasi-umano? Questo corridoio di mare e dubbio avrei cercato d’imboccare. La follia baleniera e ballerina di Melville e di noialtri.
Se Ismaele era partito per un viaggio colmo di morte e di bellezza per uno stato di possibile nevrastenia, se Acab incarnava a tutto corpo e a tutta voce la follia suicida di un capitano remoto e amputato, e se Melville per cronaca del tempo era considerato un pazzo delirante anche dalla moglie,  perché noi avremmo dovuto credere a una balena disposta a farsi prendere senza farci uscire di testa?
Eravamo e restiamo le stesse vittime di Moby Dick follia lucida, chiaroveggente ecatombe di troppo umane imprese, miraggio di conoscenza e di salvezza eterne.
La natura non faccia il suo corso e ci illuda ancora  in questo viaggio.


4 maggio 2015

fermo indagine


Quello che avevo pensato su Melville e il suo romanzo era una variante acquosa di cose lette o che avrei potuto leggere meglio elaborate in un oceano di pagine critiche.
Nulla di nuovo nelle mie intuizioni: il mito del superuomo, i precetti biblici sulle umane sorti, le paure abissali azzurre tenebre, il riscatto della letteratura sull’austerità vittoriana; l’alba della fiction nordamericana, la peculiarità di Melville nel suo tempo, l’imperitura attualità del romanzo, il simbolismo e così via.
Stanco di cercare, mi nascondevo dalla vista della Bibbia per paura di doverne leggere altre pagine oltre l’Apocalisse. Mai aperta in quarant’anni, farlo ora mi spingeva al pianto. Non trovavo pace. Tutto il simbolismo rintracciato nei mesi, tutta la mia sdrucita esegesi del testo, si organizzavano in un debole rivolo istintuale, scriteriato, eppure sola possibilità di stupore. Il disegno e le parole, arnesi primitivi, dovevano riforgiare un leviatano contemporaneo, digitale, sociale, interconnesso, ma altrettanto impossibile, immortale.
La follia sociale allora, i suoi ramponi scagliati a tutta forza sulla balena dei giorni, le diverse pazzie di Acab, di Ismaele, di Melville, dei suoi amici e di noialtri aspiranti epigoni del vate Herman, tutte venivano chiamate all’opera di questa tentata replica.