17 luglio 2015

“I would prefer not to”


Sono quasi due secoli che Moby Dick attende l’oblio. Mai nata, mai morta, sempre narrata, dipinta, cantata.
Si sottrae alla realtà, la rifiuta.

L’immortalità del mito è una prova inverificabile in vita.

Quante balene dentro questi secoli ancora. Una anche tra i poeti italiani d’avanguardia, come quello i cui versi mi sono capitati davanti per caso, in un pomeriggio altrettanto casuale e causa d’infertili emicranie.
Sono i versi di Antonio Porta, anno 1966:

La caccia alla balena ha inizio
sul mare innestato di vele
che l’incavo di vento carica di mare.
Stiamo vigili al comando, i ghiacci
inviano bagliori circondando la rotta.
Scoppia la bufera e la nave capriola
la vista indebolisce, la gola si torce, rigagnoli scendono sulle gambe
la schiena del cetaceo splende all’improvviso, incalziamo con gli arpioni
e primi si bucano i seni, seconde le cosce lucide e rovescia il ventre, le braccia allunga all’indietro:
“Issiamola a bordo, divoriamo!”

Cosa dovevo credere se non che il poeta (Porta ma anche Melville) avesse anche lui vissuto in sé attimi di balena antropomorfa; una balena con le cosce, con i seni e le braccia.
Divoriamo(la)!



Da ragazzo ero costretto alla parafrasi delle opere scolastiche e ne ho ricordi livorosi. Credevo fosse un esercizio sterile e pretenzioso.
Nel ribaltamento di umori e di cieli stretti addosso, oggi sento quell’esercizio necessario al mio scopo: convincermi che la balena è ubiqua poesia, è umana e divina assieme; ha seni e cosce esposte all’attacco di arpioni (che incalzano), è splendente, e morendo si fa di volta in volta immortale. Morendo ci porta con sé. Ci lega ad un remoto profondo affetto. E siamo immersi in lei come la poesia immerge l’uomo.

Tu ricorderai quante volte è rinata l’ossessione della balena essere femminile cumulo di sirene e incurvature gigantesche eppure di leggerissima danza. Ne disegnasti il volto, le linee sinuose, la cupa sensualità.
Oggi rinasce, sacrificata ai versi sopra, la balena Afrodite.