Sono quasi due secoli che Moby Dick attende l’oblio. Mai nata, mai morta, sempre narrata, dipinta, cantata.
Si sottrae alla realtà, la rifiuta.
L’immortalità del mito è una prova inverificabile in vita.
Quante balene dentro questi secoli ancora. Una anche tra i poeti italiani d’avanguardia, come quello i cui versi mi sono capitati davanti per caso, in un pomeriggio altrettanto casuale e causa d’infertili emicranie.
Sono i versi di Antonio Porta, anno 1966:
La caccia alla balena ha inizio
sul mare innestato di vele
che l’incavo di vento carica di mare.
Stiamo vigili al comando, i ghiacci
inviano bagliori circondando la rotta.
Scoppia la bufera e la nave capriola
la vista indebolisce, la gola si torce, rigagnoli scendono sulle gambe
la schiena del cetaceo splende all’improvviso, incalziamo con gli arpioni
e primi si bucano i seni, seconde le cosce lucide e rovescia il ventre, le braccia allunga all’indietro:
“Issiamola a bordo, divoriamo!”
Cosa dovevo credere se non che il poeta (Porta ma anche Melville) avesse anche lui vissuto in sé attimi di balena antropomorfa; una balena con le cosce, con i seni e le braccia.
Divoriamo(la)!
Da ragazzo ero costretto alla parafrasi delle opere scolastiche e ne ho ricordi livorosi. Credevo fosse un esercizio sterile e pretenzioso.
Nel ribaltamento di umori e di cieli stretti addosso, oggi sento quell’esercizio necessario al mio scopo: convincermi che la balena è ubiqua poesia, è umana e divina assieme; ha seni e cosce esposte all’attacco di arpioni (che incalzano), è splendente, e morendo si fa di volta in volta immortale. Morendo ci porta con sé. Ci lega ad un remoto profondo affetto. E siamo immersi in lei come la poesia immerge l’uomo.
Tu ricorderai quante volte è rinata l’ossessione della balena essere femminile cumulo di sirene e incurvature gigantesche eppure di leggerissima danza. Ne disegnasti il volto, le linee sinuose, la cupa sensualità.
Oggi rinasce, sacrificata ai versi sopra, la balena Afrodite.