10 marzo 2015

al fondo di niente

Non dormivo da diverse notti, ma non aspettavo Quiqueg o qualche oscura apparizione. Acab si era intravisto ed era scomparso.
Giacevo nel letto per ore. Aspettavo di toccare con il cranio rovente il fondo del fondo e lì dormire. Sentivo la testa dondolare verso il basso, ma sotto di me c’era un oceano profondo quanto una vita e alla fine di ogni notte mi ritrovavo desto, comandato dalle più cruenti luci d’autunno.

A terra, a fianco del letto, giaceva il romanzo di Melville con le pagine aperte contro il pavimento. Il  veliero in mezzo alla tempesta stampato sul dorso mi rinviava a una vanità nauseante e proterva. Era trascorso un anno dalla sua prima lettura, era la fine di ottobre 2010. Restavano scarabocchi sulle pagine e sghembe sottolineature. Avevo imbastito un soggetto vasto e visionario, per il resto, tutto era contenuto nella testa che scendeva caparbia senza affondare.

Restavo immobile nel letto, rattrappito, aspettando un buon motivo per alzarmi. Nessun desiderio e nessun dovere mi chiamavano, la stanza in penombra mi proteggeva dall’inganno di una libertà annientatrice. Il viaggio di Ismaele non riusciva più a muovermi come del resto niente in quei giorni; preferivo lasciare andare la testa all’infinito, guardare lo sfavillio fluorescente delle sinapsi allontanarsi da me, nelle oscurità marine.